Rafael Leao calciatore nasce da un campo in terra, un paio di sgridate e qualche gol da cineteca. “Ne fece uno allo Sporting saltando tutta la squadra, portiere compreso. Da lì lo hanno notato ed è partito tutto. Io da quel momento in poi non l’ho più visto”. Il racconto di Pedro Sobral - primo allenatore di Leao nelle giovanili dell’Amora - inizia così. Da un gol dei suoi, fatto di estro e fantasia. È così da sempre, dribblomane per eccellenza. “Facevamo dei tornei importanti anche se eravamo un piccolo club. Questa è stata la fortuna di Rafa. Giocavamo contro squadre come Everton o Valencia è così ha avuto la possibilità di mettersi in mostra. Anche perché credimi, a livello tecnico era già un altro pianeta".
Rafa è cresciuto a Lisbona, nel Bairro de Jamaica, dove dominano povertà e problemi. Il pallone rotola anche li, ma in modo diverso. Le gambe vanno sempre veloci, con meno preparazione atletica ma con tanta voglia di correre via dalla miseria. Il calcio in certe storie è uno strumento per la felicità. “Leao è un ragazzo che viene dalla strada. Ce lo segnalò un ragazzo, Luis, che giocava con noi. Il padre era team manager del club e lo portò da noi. Giurò a suo papà di aver visto uno di un’altra categoria. Aveva ragione. Cinque mesi dopo era allo Sporting”. Con una doppietta a fare da spartiacque e con un talento fuori dalla norma che gli ha spianato la strada verso il professionismo. Passepartout per il grande calcio. “Ha sempre puntato in alto, fin da piccolo. Ora non seguo tantissimo le sue partite, ma quando lo vedo la sensazione è sempre la stessa e cioè che ha un passo e dribbling incredibili. Penso in futuro possa andare via dall’Italia e puntare sempre più in alto”.
Come tanti “meninos de rua”, Leao era un ragazzo complicato da gestire. Timido, introverso e testardo. Lo è anche ora. “Parlava poco e non era molto ben disposto in certe cose. Soprattutto nel ricevere ordini. Era la sua prima volta in una squadra e di scene divertenti da raccontare ce ne sarebbero a bizzeffe”. Pedro si ferma, sorride e riparte. Via ai ricordi. “Lo sgridavo molto spesso. Lui pensava che ce l'avessi con lui, perché ero duro nei modi. Non capiva che lo facevo per lui. Si metteva a piangere ogni volta, si sentiva preso di mira”.
Sicuramente la rigidità di Sobral gli è servita, soprattutto dal punto di vista tattico. “Allora, sia chiaro, ti basta vederlo toccare il pallone per un minuto per vedere che è di un altro pianeta. Ma tatticamente… era un disastro. Gli dicevo di andare a destra e lui andava a sinistra. Faceva sempre il contrario, come se si sentisse ingabbiato dagli schemi. Posso assicurarti però che gli è servito e con il passare degli anni è migliorato molto da questo punto di vista”.
I racconti di Sobral lo fotografano alla perfezione. Predestinato e anarchico allo stesso tempo, con classe e dinamismo come parole d’ordine. Strappi, guizzi e chi più ne ha più ne metta. Immarcabile. “Quando andavamo a giocare nei tornei, soprattutto contro i grandi club, in tanti venivano a vederlo. Gli applausi poi alla fine erano tutti per lui. Ti ripeto, lo vedevi al primo sguardo che era superiore agli altri, anche se era un bambino. Ti assicuro però che anche il cugino di Rafa era fortissimo. Aveva un anno in più di lui e come calciatori erano molto simili. Lui però non ha mai avuto la fortuna di avere la possibilità di giocare contro grandi club, anche a causa dei problemi economici dell’Amora. Poter partecipare alle partite contro squadroni come Benfica e Sporting è stata invece la fortuna di Rafa”. Oggi Pioli e il Milan ringraziano.
Leao quindi è cresciuto così, inseguendo sogni e dribblando tutto, povertà inclusa. “Devo tutto alla mia famiglia e agli allenatori che mi hanno formato”. Parole sue. Chissà se oggi - a più di quindici anni di distanza - incontrasse Pedro, in che modo gli direbbe grazie. Magari semplicemente scusandosi per non averlo sempre ascoltato o capito. In fondo era solo un bambino. Venuto su dal nulla e che ha saputo rubare con gli occhi. Ma è sempre lo stesso, cresciuto tra tirate d’orecchie e gol da capogiro. A Milano, sponda rossonera, ne sanno qualcosa. Bastava solo crederci. Garantisce Pedro Sobral, suo primo allenatore.