C’è stato un tempo in cui un club neopromosso in Serie A è andato in testa alla classifica mettendo in imbarazzo le “sette sorelle”. E’ la stagione 2001-2002. La città di Verona, in quel campionato, è rappresentata non solo dall’Hellas ma anche dal Chievo.
La squadra di un quartiere. Un undici che diventa presto una filastrocca come le squadre degli anni ’60. I ragazzi gialloblu sono allenati da Luigi Delneri e in quella squadra, uno degli elementi più importanti è Christian Manfredini. Esterno sinistro di centrocampo, offensivo, ottime doti tecniche.
Manfredini è nato in Costa d’Avorio ma è da bambino è stato adottato da una famiglia italiana di Battipaglia. I suoi dreads erano un segno di riconoscimento, come i basettoni del portiere Lupatelli che nonostante non giocasse in attacco indossava la maglia numero 10.
Manfredini ricorda quel periodo magico: “In quella società c’era un direttore come Sartori architetto dell’Atalanta che forse può ricordare il Chievo dell’epoca. Anche se la struttura e le possibilità economiche erano del tutto diverse. Noi eravamo una piccola realtà, ragazzi di belle speranze e anche un allenatore bravo ma che aspettava la sua grande occasione. Con Delneri fu bello lavorare ma all’inizio non fu facile. Le sue idee richiedevano molta applicazione. Non abbiamo mai pensato che avremmo vinto il campionato, c’erano squadre fortissime. Chissà, forse oggi avremmo potuto emulare il Leicester”.
Alla fine di quella stagione, si fa avanti la Lazio che vuole acquistare lui e l’esterno destro Eriberto. Tutto sembra bloccarsi perché Eriberto rivelerà in realtà di chiamarsi Luciano e di essere più vecchio di cinque anni: “Quella è una storia drammatica anche se in molti ci hanno scherzato su. Noi non avevamo mai sospettato mai di nulla. Mi è dispiaciuto molto per lui. Forse sono stato il primo a saperlo prima che diventasse di dominio pubblico. Mi chiamarono in sede dicendo che si era bloccato tutto per questa cosa e se volevo potevo rimanere al Chievo. Ma ormai il mio ciclo al Chievo era finito e volevo andare alla Lazio”.
Mancini lo vuole fortemente per dare inizio alla sua rivoluzione biancoceleste: “Nella stagione del Chievo molti allenatori venivano a vederci. Erano ex calciatori o giovani tecnici che stavano facendo il master a Coverciano. Roberto aveva in mente una sua filosofia di gioco e pensava che con me e Luciano si sarebbe assicurato due esterni adatti per la sua idea di calcio. Per questo nonostante quello che accade con il mio compagno di squadra, il mister chiese a Cragnotti di comprarmi ugualmente. Io avevo altre richieste ma la Lazio mi sembrava la piazza ideale. E poi Mancini mi aveva fatto sentire importante”.
Nella capitale trova un ambiente diverso dall’isola felice targata Chievo: “All’inizio non ci ho capito niente e Mancini mi parlava spesso chiedendomi cosa non andasse. Un grande allenatore. Eravamo tanti in rosa perché la società non era riuscita a cedere i grandi giocatori come aveva intenzione di fare e così a gennaio ho deciso di andare a giocare in prestito all’Osasuna dove mi sono divertito tantissimo. La squadra spagnola io neanche la conoscevo. Sapevo solo che era vicino Pamplona. Invece è stata una belle esperienza. Anzi credo che se un calciatore ne ha la possibilità, almeno una volta nella carriera dovrebbe provare a confrontarsi in un campionato straniero”.
Christian ha dovuto fare i conti con il razzismo: “A Battipaglia mi vedevano come un marziano. Però io ho iniziato, per caso, a giocare a calcio. Ed essendo bravo non ero più il “negretto” ma il “negretto che era forte a giocare a calcio”. Poi sono andato alla Juventus e puoi immaginare cosa si diceva di me. Ero l’orgoglio di tutti. Non sono d’accordo che siano i calciatori a doversi fermare se sentono insulti dalle tribune. Io ricordo i “Buuu” e altre offese. Non ho mai pensato di fermarmi. La Fifa deve regolamentare queste cose e poi spetta agli arbitri metterle in pratica”.
Oggi Christian lavora con la Figc, in particolar modo con i centri federali territoriali: “Io e altri colleghi cerchiamo di portare la metodologia di lavoro federale in tutta Italia per formare gli istruttori dei bambini tra gli 8 e i 13 anni. Penso che un istruttore di calcio, debba studiare e qualificarsi, indipendentemente dall’età dei suoi allievi. Non ci si improvvisa. Poi certo con i piccolini bisogna anche essere psicologo”.
Christian ha ben chiaro cosa vuole dal futuro: “Insegnare calcio. A me piace insegnare non importa a chi. Io studio e mi aggiorno per questo, perché rimango convinto che non si smetta mai di imparare”. L’umiltà uno dei segreti del successo: proprio come quel Chievo che si prese la Serie A.
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