Mercoledì 7 settembre. Cala l’intensità luci del campo. Una immagine illumina la scena. Un ragazzo piange abbracciato ai suoi genitori. Lacrime. Lacrime di gioia. Origini brasiliane. Spiegano tante cose. Le origini. Spiegano quelle lacrime, i sacrifici, il successo raggiunto. Il sogno di giocare la Champions League. Prima ancora, il sogno di fare di quel pallone motivo e strumento di riscatto. Un passato difficile. Il presente le sue notti europee. Un futuro da scrivere. Una maglia numero 9. (In)segna Richarlison.
Il passato spiega tanto. A volte tutto. Il viaggio parte in Brasile. Le pieghe della vita. Quelle oscure. Toccate con mano. “La mia infanzia è stata molto povera, sono nato in una città del nord dello stato di Espírito Santo, nel sudest del Brasile. È un paesino piccolo, dove molta gente lavora nei campi e c’è molta povertà. Sin da quando ero piccolo ricordo che vedevo mio padre lavorare tutto il giorno per pagare le bollette e ogni mese era difficile avere i soldi per le minime cose, anche se lui si sforzava. E molto presto ho cominciato a lavorare anche io per dare una mano, vendevo caramelle, gelati e quando ero adolescente ho anche raccolto il caffè con mio nonno. Io e i miei fratelli vivevamo in una zona pericolosa, ho visto tante cose brutte come droga e violenza“. Raccontò in una intervista ad AS.
Il calcio come salvezza. “Tornavo da scuola con i miei amici e un tizio pensava che stessi vendendo droga nella sua zona. Mi ha puntato la pistola in testa e mi ha minacciato, ma grazie a Dio ho avuto la tranquillità di spiegargli che stavo andando al campo da calcio e che non vendevo nè usavo droghe. Volevano spararmi, ma il calcio mi ha letteralmente salvato la vita. Mi ha lasciato andare, ma ero molto spaventato”. La separazione dei genitori. La decisione di rimanere con la madre, poi la scelta cambia: “Eravamo sul camioncino del trasloco, c’era la mia cameretta, i miei vestiti. Ma all’ultimo sono sceso e ho deciso di rimanere con mio padre. Perché era la persona con cui giocavo a pallone e guardavo le partite. Mia madre non me lo avrebbe mai permesso. Ero giovane, ma non scemo”. In seguito, il trasferimento dagli zii. Una cosa troppo piccola e tre e la zia costretta a rimanere fuori più a lungo perché non c’era posto per tutti. Poi la chiamata dell’America. La prima grande occasione. Il Fluminense e, infine, l’Europa. Nel segno del calcio.
Un viaggio oltre la Manica. Perché l’Europa di Richarlison corrisponde a una sola terra, finora. L’Inghilterra. Era nel suo destino. Un trasferimento quasi concluso con l’Ajax, poi lo stop nella trattativa e la chiusura con il Watford. Il permesso di lavoro ottenuto, nonostante non rispondesse a tutti i criteri necessari. Una eccezione la sua, dopo che un panel di esperti valutò le sue prestazioni con le Nazionali giovanili, sentito compagni e allenatori del suo passato, vedendo così nel brasiliano un potenziale asset per la Lega. Poi una continua ascesa. Gli anni all’Everton e la chiamata del Tottenham di Conte. Circa 60 i milioni spesi dagli Spurs per il brasiliano. “Ho sempre detto che il mio sogno era giocare la Champions League e adesso questo sogno diventerà realtà. Forse potrei piangere quando ascolterò l’inno della Champions, sarà un momento speciale, finora l’ho ascoltato solo in televisione. Tutti desiderano giocare questa competizione, sarò abbastanza emozionato quando scenderò in campo”. Queste le parole nei suoi primi giorni a Londra. La Champions il teatro dei sogni. Dei sogni di Richarlison. L’esordio, la doppietta decisiva, le lacrime. Emozioni.
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