Il mercato “secondario” della Roma: tra cessioni, esuberi e risparmio
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Ci sono numeri e numeri all’interno di una sessione di calciomercato. Quelli che danno i titoli, che giustamente accendono gli entusiasmi dei tifosi come i 120 milioni del Chelsea per Lukaku, del City per Grealish o i 35 l’anno bonificati dal PSG a Messi. Ma anche guardando al microcosmo della Serie A ci sono i tanti milioni spesi per Locatelli, Abraham, Gonzalez, Demiral o Tomori. Spesi, sia oggi che domani, è vero, ma in un mercato economicamente complicato è importante sottolineare tanto il quando come il quanto.
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Poi però c’è tutto un mercato silenzioso, poco altisonante, ma fondamentale per tutte le società: le cessioni. Un argomento da sempre centrale negli equilibri di mercato, ma, soprattutto in questa sessione, fondamentale per l’operatività in entrata di tutti i club. Un’attenzione ai conti che ha spostato il proprio focus dalle ormai famose plusvalenze degli anni scorsi, al decurtamento del monte ingaggi. E così nel “vocabolario mercataro” sono entrati a gamba tesa termini come indice di liquidità, decreto crescita e il conteggio fiscale lordo dello stipendio dei calciatori. Il concetto denigratori di tifoso commercialista è diventata conditio sine qua non anche solo per leggere i quotidiani sotto l’ombrellone.
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Una cura dimagrante che la Roma ha voluto (dovuto) prendere molto sul serio. Partendo da maggio scorso con i contratti pesanti non rinnovati a Juan Jesus e Bruno Peres, oltre quelli di Farelli e Mirante. Ma soprattutto mettendo in chiaro fin da subito le proprie intenzioni con tantissimi calciatori. Tra ritorni dai prestiti, infortunati cronici, primavera e calciatori fuori dal progetto tecnico di Mourinho, praticamente una rosa intera.
Tutti inseriti in una lista cedibili che prevedeva allenamenti individuali a Trigoria e un invito non troppo velato a trovarsi una nuova squadra. Un processo di sfoltimento, ancora non terminato, guidato da Tiago Pinto che si è trovato a gestire oltre 70 contratti professionistici in essere con un unico diktat: cedere. Un lavoro gestito parallelamente agli acquisti, spesso propedeutico all’operatività in entrata, il tutto all’interno di un mercato dove tutte le società dovevano prima vendere e pochissime potevano acquistare.
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Ma l‘abbassamento del monte ingaggi era una priorità per la Roma, quasi ad ogni costo. Per questo sono state accettate cessioni non certe ma possibili in futuro. Per questo si è deciso di abbassare le richieste per i cartellini, assecondando la cessione e puntando al risparmio dell’ingaggio. Parlando in soldoni, la Roma ha come unica certezza l’incasso di 8 milioni dal prestito con obbligo di Under. Ha regalato il cartellino a Pedro e Dzeko, strappando dei bonus raggiungibili solo a determinate condizioni. Kuivert, Pau Lopez e Florenzi sono stati ceduti in prestito con diritto di riscatto e sul monte ingaggi pesano ancora come macigni i contratti di Pastore, Santon e Fazio.
Difficile fare meglio, soprattutto con chi rifiuta qualsiasi destinazione. Un lavoro che ha portato ad un risparmio totale di oltre 40 milioni di euro di ingaggi. Gli stessi 40 di Abraham, dei tanti tifosi a Ciampino ad accoglierlo, ma con un – comprensibile – appeal diverso. Voci di bilancio distinte per esborsi opposti, è ovvio anche a chi non è contabile. Ma il lavoro di un direttore come Tiago Pinto è far quadrare i conti. Dando la stessa importanza ai numeri, che siano in entrata, in uscita o con il segno meno davanti.
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Un mercato secondario, da dietro le quinte, che però ha dato aria ad un mercato in entrata da quasi 100 milioni di euro. Tra sforzi economici della proprietà e furbizia nelle modalità di pagamento – da Rui Patricio a Abraham. Sottolineare il quando, dando importanza anche al quanto. Si torna sempre lì, anche ai titoli di giornale, agli entusiasmi per gli acquisti. Ai sogni dei tifosi, la base di tutto. E quindi alla speranza di cessione per i pochi esuberi rimasti che possano poi dare il la al “mi piacerebbe” di Mourinho di ieri. “Equilibrio ed esperienza”, magari a centrocampo.