Quando Simone Napoli coronò il sogno argentino: “Ho giocato contro Veron nel derby di La Plata”

Metti un ragazzo italiano di 19 anni, da solo, in Argentina. Bello direte. Vacanze da sogno, erasmus formativo, esperienza di lingua spagnola dall’altra parte del mondo. Ecco, no. Niente di così ovattato e protetto. Uno dei primi approcci con la realtà sudamericana è stato in campo. A giocare il derby di La Plata, uno dei più sentiti di Argentina.
Siamo a settembre del 2013, Simone Napoli da qualche settimana ha fatto la scelta più coraggiosa della sua vita: lasciare la Primavera della Juventus, il sogno di esordire con la maglia bianconera, per imbarcarsi su un volo per Buenos Aires. Un’opportunità creata dal suo agente di allora Rodolfo Kirsch, che il mercato argentino lo conosce molto bene. La Juventus aveva lasciato scadere i termini per il rinnovo di contratto e il mercato italiano non sembrava voler dare un’opportunità seria e credibile ad uno dei giovani più interessanti della Primavera bianconera. Lo scudetto con Conte da “aggregato” alla Prima Squadra, poi il silenzio.
Da lì la scelta del Sud America, ad attenderlo un contratto da professionista con il Gimnasia : “Fu una scelta coraggiosa, ma se ci ripenso oggi dico che non potevo farne una migliore”. Oggi Simone ha lasciato il calcio per occuparsi dell’azienda di famiglia, “ma quell’anno in Argentina è stato incredibile. Ma per davvero. Fidatevi, sono partito ragazzino e sono tornato uomo”. Frase trita e ritrita, ma ascoltando il racconto e conoscendo anche solo per sentito dire la realtà argentina, ci crediamo ciecamente. “Quando presi quel volo da Malpensa, i miei genitori non smettevano di piangere”. Lasciar andare il proprio figlio, orgogliosi di fargli coronare il suo sogno ma comprensibilmente preoccupati di un’avventura dall’altra parte del mondo. Non al college USA, o nell’academy di un club britannico. Giocando da professionista, a calcio, in Argentina. Provateci voi.

Ma l’Argentina ti entra sottopelle e te ne rendi conto anche se sei un ragazzino torinese spaesato che parla solo italiano: “Il mio approccio con lo spogliatoio è stato da brividi. Io non ero nessuno. Simone Napoli dall’Italia. Mi sarei aspettato la classica accoglienza per un giovane. Cordiale, ma fredda. Ecco il Sudamerica non è questo”. La gente a quelle latitudini è speciale. “Il primo giorno entro e subito vengo abbracciato dal capitano Lucas Licht. Quegli abbracci forti, a metà tra l’affettuoso e l’intimidatorio positivo. L’allenatore Pablo Troglio (con un passato in Italia con Verona, Lazio e Ascoli, ndr) prese la parola davanti a tutti e disse «Simone, tu qui avrai una famiglia su cui puoi sempre contare». Parole che mi entrarono dentro”. E fu così per tutta la stagione.

Un anno vissuto da calciatore sì, ma in una realtà diversa da tutto il mondo come quella Argentina. Il calcio come ragione di vita, il tifo come atto di fede e la rivalità come questione di vita o di morte. “Concetti reali, che puoi capire solo se sei stato lì. Non è letteratura, non stiamo parlando di narrativa creativa da documentario del barrio. Io l’ho vissuta sulla mia pelle. Il bello e il brutto di un mondo affascinante”.
Le avventure nelle villas di La Plata, “sempre accompagnato o invitato. Da solo è meglio non andare in certi posti. Ancora mi ricordo quando Fernando Monetti, il portiere, mi invitò a casa sua. Lui era il più pagato della rosa, con una villa a Miami. Ma a La Plata viveva ancora nel suo quartiere. Lui veniva da lì e lì voleva stare. Mi diede appuntamento a 1 km da casa sua. Era meglio entrare con lui. La frase che mi disse quando mi venne a prendere ancora me la ricordo: «Simo, seguimi con la macchina, ma stammi attaccato». Arrivati, la frase fu ancora più perentoria, ma rassicurante. «Lasciala pure aperta, non la tocca nessuno».

O le idee “malsane” di un giovane sognatore del calcio da copertina: “Ammiravo Tevez, un giorno chiesi ai miei compagni di accompagnarmi nel barrio dov’è cresciuto, dove c’è il famoso murales”. Come fosse una gita di piacere a Buenos Aires: “La risposta fu netta. Simo, lascia stare. A Fuerte Apache è meglio non andare. Se vuoi ti accompagnamo al confine, lì noi possiamo arrivare. Se entri è a tuo rischio e pericolo. Mi bastò questa frase. Il murales lo guarderò sempre su Google”.

E le avventure in campo, con il ricordo più indelebile di una carriera: giocare il derby di La Plata, Estudiantes-Gimnasia. Alla fine dell’anno le presenze furono due, sempre da subentrato ma “quella mezz’ora abbondante la porterò per sempre dentro di me. Giocare il derby, in quell’atmosfera, contro un campione assoluto come Veron. Incredibile. Ormai era già grande, non aveva più lo smalto che tutti ricordiamo in Italia. Ma giocava a casa sua, con la fascia di capitano al braccio. L’aura della leggenda quasi arrivava prima di lui. E in campo, per i compagni ovviamente, c’era una forma quasi sacra di rispetto. Ovviamente per noi era il nemico. Non solo l’avversario. Ma in Argentina è così. Prendere o lasciare”.

Quel Paese è tutto questo e anche di più. Passione, amore e fiducia incondizionata. Fino a prova contraria. Il popolo argentino ti dà tutto senza chiedere nulla in cambio, ma guai a tradire la loro fiducia. O la loro fede. “Verso la fine del campionato eravamo ormai fuori dalla lotta per il titolo. Delusione, dispiacere. Ecco, laggiù e qualcosa di più e io me ne resi conto sulla mia pelle”. Non in campo, ma per strada: “Era una sera come un’altra e scesi dal mio appartamento per andare al supermercato. In un attimo mi ritrovo con un coltello alla gola e una persona che, chiamandomi per nome, mi chiede i soldi. Conoscevo la leggenda dei motochorros in Argentina, ma non mi ero mai trovato faccia a faccia con uno di loro”. Il prezzo della delusione. L’aura di intoccabile era svanita, ora vigeva la regola della strada. Come per tutti: “Gli diedi tutti i soldi che avevo in tasca, era l’unico modo per uscirne”. Un’esperienza forte che però non ha cambiato di una virgola il suo pensiero su un paese stupendo: “Tornerò appena possibile con la mia futura moglie. Voglio farle conoscere quel Paese. E’ parte della mia vita. E se oggi sono uomo, il suo futuro marito, lo devo soprattutto a quell’esperienza”. Da giovane sognatore catapultato in Argentina.