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Paolo
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Frey: "Inter? Zenga mi convinse a gesti. Al Cannes davo buca alla professoressa"
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"Non ho mai chiesto una maglia ad un avversario". Una frase basta per riassumere facilmente il carattere e la personalità di Sébastien Frey, che ci racconta alcuni momenti memorabili della sua carriera. Sembra impossibile immaginare un giocatore della Serie A di fine anni ’90 e primo decennio del 2000 non chiedere mai un cimelio ad uno dei tanti campioni affrontati, ma Frey è diverso: “Tutte le maglie della mia collezione le ho avute perché gli altri sono venuti a chiedere la mia. Da Totti a Zanetti, passando per gli juventini Trezeguet e Del Piero. Per me è stato un orgoglio ogni volta che questi giocatori mi domandavano «Posso avere la tua maglia?»”.

Vedi San Siro e poi... arrivi 

Eppure la sua avventura italiana è passata per una maglia, che va bene non ha chiesto direttamente, ma che lo ha aiutato, se ce ne fosse stato bisogno, a sposare la causa dell’Inter: “I nerazzurri mi volevano e così mi invitarono a Milano per vedere Inter-Strasburgo, ottavi di finale di Coppa Uefa del 1997/98. A fine partita, tramite Sandro Mazzola, che voleva darmi un segno della sua forte volontà di acquistarmi, ebbi la maglia di Ronaldo. Lui e gli altri futuri compagni mi parlarono per conoscermi prima del trasferimento quando scesi negli spogliatoi. Ronaldo, Zanetti, Djorkaeff parlavano a me, che avevo 17 anni, capito?”  

Il portiere più promettente di Francia si convinse così definitivamente di voler venire in Italia, anche se molto fece l’atmosfera provata in quei momenti: “Ero un ragazzo che arrivava dalla Francia e da stadi abbastanza tranquilli. Entrai a San Siro e subito pensai «Ca…volo! Ma cos’è sta roba? Io voglio venire qui» . In più, quella sera fu molto divertente: mi sedetti in tribuna presidenziale al fianco di Moratti con la giacca dell’Inter che mi avevano regalato qualche ora prima. Tutto il primo anello rosso mi fissava e si domandava chi fossi, sognando magari un nuovo acquisto top”. 

E questo è stato di fatto, prima per l’Inter (la firma sul contratto arrivò il giorno dopo quella partita di Coppa Uefa, per evitare di rinviare ancora un’opportunità unica) e poi per Parma (QUI il racconto dei suoi anni emiliani), Fiorentina e Genoa.  

Il no a Juve a Marsiglia, il sì "a gesti" all'Inter

Il sogno italiano si concretizzò dopo l’esplosione in Francia, prima fu solo accarezzato grazie a una chiamata della Juventus: “Volevano aggregarmi alla squadra primavera quando avevo 16 anni. Ma in quel momento il solo pensiero di allontanarmi da casa mi spaventava, così rimasi a Cannes”. Scelta poi rivelatasi coraggiosa, ma giusta. Un anno dopo, la titolarità fra i pali del Cannes lo mise in mostra davanti a mezza Europa: “Molte squadre si interessarono a me. Fra tutte il Marsiglia, che all’epoca era il massimo in Francia. Però un giorno mi avvisarono che all’allenamento sarebbe venuto un osservatore dell’Inter”.

Quell’osservatore si chiamava Walter Zenga. L’ “Uomo Ragno”, ritirato da poco, fu mandato da Mazzola e Castellini per avere un parere in più su quel ragazzo promettente: “Gli bastò un allenamento. Andammo a pranzo e lui già mi vedeva come il futuro fra i pali dell’Inter” A Cannes, a pochi passi dal convitto dove abitavano i ragazzi delle giovanili, c’era un ristorante di pesce: “Ci ritrovammo io, mio padre e Zenga. Ero emozionato al solo pensiero che una leggenda del genere, fra l’altro del mio stesso ruolo, si spostasse fino in Francia per me. Non avevamo molto da dirci, sapevamo entrambi perché eravamo lì”.  

Ma anche volendolo, non si poteva dire molto, date le difficoltà di linguaggio: “Io non parlavo ancora l’Italiano e nemmeno mio padre. Walter ovviamente non sapeva il francese e l’inglese era reciprocamente scarso. Così ci capimmo a gesti e a francese-italianizzato e italiano-francesizzato. A Zenga comunque fu sufficiente dire «Inter, ok. Inter, top club»  che già ero convinto sul mio futuro”.

La scuola dopo, intanto batto la Germania con la Costa Azzurra

Gesti e poche parole, poi l’ingresso a San Siro per chiudere a chiave il proprio futuro nerazzurro. Prima di approdare a Milano però, come ogni storia che si rispetti, serviva un addio alla Francia in grande stile. Così fu.

Frey nell’estate del 1998 è il portiere di una giovane selezione della Costa Azzurra che sfida in amichevole la Germania campione d’Europa, che è a Nizza in ritiro per prepararsi al Mondiale: “In pochi parlano di questa partita, ma è uno dei ricordi più belli che ho. Era una splendida giornata di giugno. Io ero spensierato, avevo già firmato con l’Inter. Ma comunque avevo una chance di farmi vedere dal mondo intero. Parai tanto ai tedeschi e ricordo che dopo la nostra storica vittoria per 2-1, se ne andarono dal campo parecchio arrabbiati”.

Nonostante la maturità in campo, qualche errore di gioventù si faceva ancora notare: “Una volta fatto l’accordo con l’Inter la società mi mandava una professoressa d’italiano al convitto di Cannes. Metà delle volte le davo buca, non mi facevo quasi mai trovare”.

La lingua comunque fu imparata in fretta, all’inizio dei quindici anni al massimo livello in Serie A: “All’Inter, mi aiutarono ad ambientarmi Djorkaeff e Cauet, che fu un po’ come un padre per me in quegli anni. Già quando arrivai nel ’98, non ebbi bisogno di professori. Quando i compagni tornarono dai mondiali già capivo molto bene quasi tutto”.

Praticità, astuzia e semplicità. Dogmi per chi non voleva sentirsi rinchiuso in una gabbia. Certo, per Sébastien Frey a volte risultava comodo liberarsi dei pensieri e dei problemi: bastava mettersi fra i pali, indossare un ideale mantello e iniziare a volare. 

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