Fenomeno social si diventa in un secondo: basta un video particolare, di quelli che non ti dimentichi. Magari con una litigata, una parolaccia, una rissa. Salvatore Soviero in questo è diventato uno specialista senza saperlo. Perché quando giocava (e l’ha fatto per oltre vent’anni) i social manco erano un progetto. E in campo ha dato tutto, sempre. “Anche troppo” racconta in esclusiva a Grandhotelcalcomercato.com.
Voce potente, come quando giocava: anche perché da portiere o gridi, o gridi. Soprattutto in quei campi e in quegli stadi in cui gli animi si surriscaldano parecchio. La sua carriera va dal 1990 al 2010, e per vedere tutte le sue squadre c’è Wikipedia. Ne citiamo solo qualcuna: Salernitana, Genoa, Venezia, Avellino, Cosenza, Crotone. La particolarità? “Le trattative me le sono fatte tutte io”. Come? “Tutte, sì. Non avevo l’agente: chi mi voleva, doveva parlare con me. Anche perché le cose le sapevo direttamente io, che senso aveva che qualcuno parlasse al mio posto?”. Ecco, questo è Soviero. Portiere vecchio stile: non troppo alto (non come adesso), fisico molto potente, esplosivo in porta. Alla Peruzzi. “Lui era il nostro prototipo. Anche troppo sottovalutato” dice. “Era silenzioso, poco folkloristico, ma è stato tra i più grandi. Ora è tutto diverso: un portiere viene lanciato subito ad altissimi livelli, e se va bene continua, se no si perde. Io sono figlio di un portiere, mi sono forgiato nei campi tosti”.
Parola di chi, a 49 anni, il calcio l’ha conosciuto davvero molto bene. Partiamo allora dalla fine, cioè da quei video che lo stanno di nuovo rendendo famoso (qui un esempio). “Una cosa del genere non sarebbe mai più permessa. Quando giochi in una squadra di livello inferiore sul piano tecnico, devi superarla su quello agonistico: noi facevamo così. Adesso è cambiato le partite sono fisiche, ma non più violente”.
Ma se dovesse tornare indietro, lo rifarebbe? “Forse no. O meglio, non lo so davvero. Perché a volte si faceva quasi più riferimento ai miei comportamenti che alle mie prestazioni. Per esempio, la rissa di Venezia: sono stato provocato ma avrei dovuto di sicuro gestirla diversamente. Ci ho messo del mio e spesso mi trovavo in prima linea ma dalla parte sbagliata. A posteriori, alcune cose le avrei riviste, anche pensando ai compagni che ho difeso e che in alcuni casi non se lo meritavano”.
Nomi di giocatori non ne fa, ma di allenatori sì. “Non so quante volte abbia litigato con Gasperini e Mazzarri. Il primo si arrabbiava se me la prendevo con il pubblico, diceva che avrei messo in difficoltà i compagni. Aveva ragione, ma non mi stava simpatico, per quanto lo abbia sempre ritenuto un grande allenatore. Il secondo invece spesso litigava con me, e di conseguenza faceva litigare me con il presidente Foti (alla Reggina, ndr)”. E poi c’era Zeman: “Che resta la persona che mi ha dato di più. Non è che con lui non discutessi, ma a me ha cambiato la carriera: fisicamente, a Salerno, mi ha trasformato, facendomi vivere di rendita per gli anni successivi. Il suo problema è stato lo staff, che secondo me non era all’altezza: gli dicevano tutti di sì, anche quando sbagliava”.
Niente peli sulla lingua. Figuriamoci durante le trattative. “Quella più clamorosa è stata nel 2004, quando ero a Venezia e mi voleva la Reggina. C’era Dal Cin, che mi aveva fatto quattro anni di contratto, ma volevo andare via. Siccome avevo litigato con lui, ci eravamo ritrovati in tre in una stanza: io, il presidente e il figlio. Non ci guardavamo negli occhi: io dicevo al figlio di dire al padre che cosa volessi, e lui rispondeva di dire a me che cosa volesse lui. A un certo punto gli avevo detto di far sapere che pensassi che fosse una chiavica, lui disse di farmi sapere che ero il suo presidente. Alla fine mi prestarono alla Reggina, ma poi il Venezia fallì e mi trovai a trattare da solo il contratto”.
Un altro aneddoto, l’Avellino. “Antonio Sibilia era sempre stato un’istituzione. Nel ‘96 ero alla Fermana, ma dopo pochi mesi chiesi la cessione. E si era fatto avanti lui, con quel vocione che faceva paura. La trattativa fu davvero particolare”. Perché? “Intanto, perché stava per saltare. Nella sede dell’Avellino c’erano dieci persone ad aspettarmi. Troppe. Avevo detto al presidente che avrei dovuto parlare solo con una persona, per evitare confusione e fraintendimenti. Le mie cose dovevano essere mie, non per conto di altri. Lui aveva fatto uscire tutti e mentre parlavamo di cifre aveva voluto aggiungermi dal nulla 20 milioni di lire di stipendio. Qualche settimana dopo, nello spogliatoio, ad alta voce mi aveva detto: ‘Ti ho dato soldi in più perché devi fare la differenza’. In molti dei miei compagni avevano paura di lui, io lo vedevo più come un nonno burbero. Comunque alla fine ci siamo salvati in C1: era stata un’ottima stagione per me”.
Una sola stagione in Serie A, con la Salernitana. Forse troppo poco. “Sì, ma non mi lamento. Alla fine farne due o tre in più non mi avrebbe cambiato la vita. A un certo punto, quando ero al Genoa, sarei potuto andare alla Roma: ma siccome ero testardo, avevo giocato per tre mesi con una spalla rotta e alla fine non ero pronto. Sono sforzi per cui non vale nemmeno la pena: ai tifosi non interessa quanto un giocatore stringa i denti, vogliono la prestazione. Giustamente. E pure qualche anno dopo, avrei potuto fare la Serie A con il Lecce, ma alla fine non se n’è fatto nulla perché la Reggina non aveva voluto. E siccome mi aveva fatto perdere la Serie A, per ripicca sono andato al Cosenza”.
Storie di campo e calciomercato. Storie di cuore. Adesso, Soviero ha aperto una scuola calcio in Argentina e gestisce un maneggio per cavalli da morfologia: quelli di pedigree, che vengono esibiti alle mostre. “Mi hanno detto in tanti di darmi all’ippica”. Ride. Senza parolacce o urla. È un fenomeno social anche così.
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