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"Quei duelli con Ringhio e Emerson. I top club? Non erano per me": Grella e la sua Serie A
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Vincenzo Grella può tornare nel mondo del calcio. Infatti l'ex centrocampista è nel board del gruppo Pelligra - insieme all'ex compagno Mark Bresciano - che può rilevare il Catania dopo il fallimento e cominciare un nuovo corso per la squadra siciliana. Vi riproponiamo una vecchia intervista rilasciata a grandhotelcalciomercato.com dove l'australiano ci raccontò la sua nuova vita dopo il ritiro da giocatore.

 

Ci sono le stelle, quelle che vanno sulle copertine dei giornali: sono la parte luminosa del calcio. Poi c’è quel mondo sommerso, ma fondamentale. “Io l’ho sempre saputo, sono stato un mediano: il mio ruolo non è mai stato decisivo, non ero io che sbloccavo le partite”. Però in Serie A è stato una colonna. Una delle poche che sono arrivate, davvero, dall’altra parte del mondo. Biglietto dall’Australia, sola andata: all’anagrafe è Vincenzo Grella, le origini italiane sono evidenti. Anzi, di più. Su Whatsapp ti risponde con l’emoji di un canguro, quando gli parli percepisci ancora l’accento anglofono anche se vive in Toscana da oltre vent’anni. Ma certe espressioni, ormai, gli sono dentro. Come la Serie A.

Biglietto sola andata

A Empoli sono arrivato in prova di dieci giorni, che poi è diventata un anno di contratto. Aveva senso: come può un giocatore farsi davvero notare in così poco tempo? O sei un fenomeno e non conta; o hai fortuna, o sfiga”, ci racconta Vince, come lo chiamano tutti. Era un centrocampista di quelli rocciosi, tosti: quando c’era da mettere la gamba non la tirava indietro. Un po’ come fa ora per le trattative che segue. È agente per la CAA Base e in Italia segue (insieme a Vitor Saba) Dierckx: “Giovane e cazzuto, come piacciono a me. Ha esordito in Serie A affrontando uno come Caputo e senza faticare più di tanto. La cosa che mi colpisce è che per la testa che ha, sembra di parlare con un giocatore di trent'anni, non con uno di 18”.

"Giochicchiavo"

Da agente si prende cura dei suoi giocatori, un po' come, quando era giocatore, lo faceva con lui Sergio Berti. “Quando arrivai in Italia, fu bravo a fare in modo che quei 10 giorni venissero trasformati in un contratto di un anno. Quella prima stagione feci solo 5 partite in Serie A, ma avevo 18 anni, e ci fu anche la retrocessione. L’anno dopo l’Empoli mi tenne comunque, ma all’inizio non vedevo il campo perché non ero ancora pronto: così decisero di prestarmi alla Ternana, dove ho giochicchiato per un anno e mezzo”. Giochicchiato, proprio così. “Nell’estate 2001, Corsi decise di farmi rientrare per tenermi e con Baldini fu subito amore. Quell’anno andammo in Serie A”. In squadra? Un giovanissimo e connazionale Mark Bresciano (“È il mio amico di sempre”), e poi due nomi così, per dire: Rocchi e Di Natale.

 

Ma se devo ringraziare qualcuno, questo è Baldini: per me fu fondamentale. Mi aveva dato una disciplina da seguire, mi diceva come dovevo trattare l’avversario. Lì capii davvero cosa volesse dire giocare in Italia: tanti piccoli particolari che mi hanno fatto crescere in maniera incredibile”.

 

Tanto da passare prima al Parma, poi al Torino. Il suo trasferimento in granata è una bella storia di calciomercato: “In Emilia ero capitano, ma dopo tre anni in cui potevamo tutti dare qualcosa di più sentivo che la mia esperienza fosse alla fine. Io stesso ero partito con delle aspettative, ma ogni volta qualcosa non funzionava. Non giocavo male, ma non ero al top. A fine stagione (era il 2007, ndr), ero andato in vacanza con la mia famiglia. A Berti avevo detto di fare cosa preferisse: non ho mai insistito per andare in una squadra, non mi sono mai lamentato. Mi aveva cercato il Palermo, so anche di sondaggi della Roma e addirittura l’Inter”. 

"Non potevo andare all'Inter"

Ma bisogna essere concreti: “Io stesso sapevo bene che non avevo le qualità per andare a Milano. Comunque, si era fatto avanti il Torino: un progetto interessante. Allenatore nuovo (Novellino, ndr), giocatori importanti come Di Michele, Ventola… sarebbe arrivato anche Recoba. Accettai con entusiasmo, ma dopo undici mesi gli stimoli sentivo che erano venuti meno: con quei nomi, dovevamo lottare per i primi sette posti, e invece siamo riusciti a ottenere una salvezza con fatica. ‘Ma come c...o facciamo a stare in fondo?’ ci chiedevamo sempre”. 

 

Qualcosa doveva cambiare, di nuovo. “I miei compagni in Nazionale mi dicevano tutti che sarei dovuto andare in Premier, che sarebbe stato il campionato perfetto per me. Nel 2008 c’era stato un grande interessamento del Fulham, ma la trattativa non andò poi a buon fine”. Si fece avanti il Blackburn: “Fu una cosa particolare. Ince era appena diventato il loro allenatore e mi vide durante una partita in Nazionale: Australia-Sudafrica. Quella volta feci proprio bene e si attivarono subito per prendermi. Cairo in realtà non voleva farmi partire, ma era un buon affare per tutti”. Da zero a cinque milioni, una bella plusvalenza. “Io ero motivatissimo, il mio corpo purtroppo un po’ meno. In Inghilterra, in Premier, sono stato da Dio. Peccato per gli infortuni che mi hanno frenato”.

Gattuso, Emerson e... la Fiorentina

Rimpianti zero, schiettezza molta. E, soprattutto, totale assenza di protagonismo. Se deve pensare a due avversari, non cita le stelle (e ne ha affrontate parecchie), ma Gattuso e Emerson: “Che hanno avuto una cultura sportiva pazzesca. Rino si incavolava quando facevamo falli ai compagni, non a lui. Il Puma era come un tronco d’albero. Avete presente? Gli davi un calcio e non si muoveva, ma ti facevi male tu”. Ah, ultima cosa. La squadra in cui avrebbe voluto giocare? “Potrei dire Liverpool, che tifavo da piccolo, ma sarebbe stato impossibile. Oppure altri top club, ma non mi avrebbero mai preso. No, mi sarebbe sempre piaciuto andare nella Fiorentina”. Perché? “Quando andavo al Franchi da avversario, mi ricordo il clima che c’era. Mi sarebbe piaciuto viverlo a mio favore”. Più concreto di così, proprio non c’è.

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